PROGETTO MAOHAMED

Africa, Africa e ancora Africa. Ma quante persone hanno voluto e vogliono aiutare l’Africa?

Per parlare di Africa sento di doverti raccontare qualcosa che mi riguarda. Sono andata in Tunisia la prima volta che avevo 18 anni, ci sono tornata 3 volte nello stesso anno e qualche volta ancora negli anni successivi, attraversando a piedi parte del Sahara, ricordando ancor oggi l’unico cibo a disposizione nel deserto: il latte cagliato di cammello, con il suo odore acre, acido, sconosciuto, unico cibo e, gli enormi scarafaggi che animano la vita alla frescura della notte, quando in un enorme telo ti devi avvolgere per non sentire né quegli scarafaggi, né il freddo della notte. 

A quel tempo, conobbi molte donne europee, giovani e meno giovani, che si innamoravano di qualcuno che sembrava essere più “esotico” rispetto all’uomo ordinariamente occidentale, anche per me fu così; mi innamorai di un bellissimo ragazzo Tunisino dagli occhi scuri che, al tempo, mi trattò come una principessa in quella terra straniera, a dispetto di tutto quello che mi raccontavano qui in Italia. Andai a vivere per certi periodi a Djerba perché lui, essendo una guida turistica, parlante la bellezza di 7 lingue, viveva proprio lì, con suo fratello ed un suo caro amico. Per me fu un’esperienza meravigliosa, la casa era composta da una semplice gettata di cemento con muri bianchi e tetto piatto, stanze grandi e luminose, nessun mobile, ricordo un piccolo fornello in cucina, niente di più. 

Ogni tanto insieme ad Adnen, si andava a Tunisi per trovare la sua famiglia, mi piaceva tanto la sua mamma, sempre sorridente, così come la sorella. Le particolarità erano tante ma, quelle che mi colpirono di più furono: l’accoglienza nei miei confronti, il fatto che io non dovessi fare nulla (per fortuna a quel tempo studiavo per l’università, che ovviamente, non frequentavo) e quindi passavo il mio tempo ad essere riempita di cibo, ero diventata particolarmente in carne, molto in carne, ma si sa che agli arabi, o almeno, così diceva Adnen, piacciono le donne grasse; la terza cosa che mi colpì, che non riuscii però ad assecondare, fu l’usanza di fare dei rumorosi rutti a fine pasto per dimostrare quanto fossero piaciute le portate.

L’Amor giovane finì, primo perché per Adnen era praticamente impossibile ottenere il visto per venire in Italia ed allora io pensavo che, per amore, dovesse riuscirci, e poi, l’amore finì anche per la pressione che mi arrivava dalla famiglia: da mia madre, per essere dettagliata, mi si prospettava un futuro fatto di botte, soprusi e violenze dato che Adnen era di un’altra religione; mia mamma è stata la mia croce e la mia salvezza, ha detto così tante cose inutili e non veritiere che mi ha condotta, in parte, con una mano invisibile verso quella che sono oggi. Su Adnen, comunque, si sbagliava. Ciò di cui sono felice e che mi piace oggi è che con Adnen sono tutt’ora in contatto, lui vive in Svizzera ed ha una bellissima moglie ed una bambina, lavora sempre nel turismo e si dice felice.

Il calore, quel deserto, il sole ed i tramonti riempirono ogni longitudine della mia Anima, non riuscivo a dimenticarli.

L’Africa mi ha sempre affascinata, forse perché mio nonno era nato in Egitto e mi ci portò da molto piccola, forse perché semplicemente amo il caldo ed i sorrisi, o chissà, magari qualche altra parte di me vive in Africa ed io non lo so, fatto sta che ci volevo tornare. Così dopo qualche tempo decido di partire per il Kenya, inizialmente con un piccolo gruppo di appassionati, molto più grandi di me, tra cui, un signore di 85 anni, riflessivo, silenzioso ma che custodiva interessanti segreti di angoli di quel paradiso e non mancava di stupirci nei momenti meno attesi.

Vengo rapita dalla vegetazione, dal sole, dalla gente, dagli animali e decido di rimanere lì.

Dopo aver girato i parchi, mi sposto a Malindi, siccome non ho un soldo e nemmeno una conoscenza, certamente non posso permettermi un hotel ma conosco una ragazza che mi ospita e così mi fermo da lei, consapevole che possa essere solo una situazione momentanea. L’atmosfera mi piace, dove ci sono “i bianchi” tutto sembra perfetto ma appena fuori… la perfezione diventa illusione: assisto al traffico di riviste pornografiche in aeroporto, al mal-trattamento delle donne nere nei bordelli, all’uso compulsivo del marungi (una pianta il cui principale principio attivo, il catinone, produce effetti simili all’amfetamina) che a quel tempo, a sensazione, veniva usata per gestire la frustrazione più che per fare viaggi di stile visionario, a quel tempo l’uomo bianco iniziava nuovamente ad essere presente in quei posti; considera che ad un certo punto la ragazza da cui vivevo (italiana) decide di prendere un ‘tutto fare’ a casa – cucinava, lavava, puliva, eseguiva qualsiasi tipi di ordine, tornava a casa dai suoi 13 figli facendosi 15 chilometri a piedi al mattino, ed alla sera, il suo stipendio era di quindici mila lire al mese.

Ho poi conosciuto Milla, Keniota, che diventò mia amica, seppur nessuno delle due capisse una parola di quello che diceva l’altra, passavamo moltissimo tempo insieme, lei era la compagna di uno straniero trasferitosi a Malindi, chiaramente lui non c’era mai e lei era una sorta di serva, Milla era nera nera ma non voleva mai stare al sole perché temeva di abbronzarsi troppo. Io e lei ci incontravamo al mattino e facevamo insieme la nostra lunghissima passeggiata tra spiaggia e natura selvaggia, ci capivamo, non so bene come, ma ci capivamo, la nostra comunicazione era fatta di sguardi, di sorrisi, di parole tradotte dallo swahili all’italiano e dall’italiano allo swahili. Ogni tanto mi cucinava qualcosa di tipico, c’era molto affetto tra noi, ci volevamo bene.

Io amo questo posto ma non so come poterci rimanere, un giorno, andando al mercato in bicicletta, vengo fermata da un tizio che mi propone dei soldi per fare la pubblicità di “GIOCHI SENZA FRONTIERE” per “TeleLibano”, ovviamente accetto, i soldi mi servono e per fare questo spot me ne danno ‘tanti’, per quanto possano essere ‘tanti’ se non ne hai neanche un po’: 500 mila lire. Così passo tre lunghissime giornate vestita con una tutina rossa sintetica e con la faccia dipinta di rosso, a correre avanti e indietro per una spiaggia rovente, non ero l’unica, c’erano tutti gli altri colori, il caldo torrido, tutto il giorno a cuocere ma la ricordo come un’esperienza che mi fa ridere. Bene, prendo i miei soldini e decido che scriverò la mia tesi in Kenya! Voglio girare per tutte le tribù (ce ne sono davvero tante!!) e scrivere delle loro usanze, dei loro rituali, del loro cibo, mi interessa tantissimo, insomma, ho sete di conoscenza e, nel frattempo, sono anche riuscita a parlare un po’ di swahili! Girando in lungo e in largo, passando a vagare per tribù sperdute scrivendo di loro, ahimè, di quel passo la tesi non finiva mai, in realtà non era mai iniziata, forse: non tornavo più a casa, le tribù erano troppe ed io non riuscivo a darmi limiti e regole, questi posti sono un nonnulla rispetto alla vastità territoriale ed alla varietà antropologica di questo misterioso, semplice e focoso continente. Raccolgo non molte informazioni perché intanto mi faccio rapire dagli eventi ed inoltre, non avendo una struttura solida alle spalle, come organizzazione di mezzi o semplicemente di trasporti, tempistiche, alloggi e chi più ne ha più ne metta, la questione diventava piuttosto rocambolesca. Ecco ciò che ho raccolto:

TRIBÙ GIRIAMA

Kenga, 5 marzo 1973

Dama 1974

Kenga non sa quando sono nati i suoi figli, deve chiedere alla ragazza italiana che mi ospita. Kenga era cuoco in un ristorante, ora chiuso, presso il villaggio ‘Oasi’, villaggio nel quale è stato assunto dai genitori della mia amica: cucina, lava, stira, fa la spesa… insomma, un tuttofare.

Di stipendio riceve 40 euro al mese e ha una famiglia molto numerosa, ha infatti 5 figli: Sarissa (18.6.93), Marianna (24.4.95), Antonio (15.1.1998), Evans (27.7.2000) e Giuseppe (10.5.2003), ed una moglie. Quando gli chiedo: “Tua moglie lavora?”, lui mi risponde: “Lavora solo quando sono a casa io, nel letto”. È curioso sapere perché alcuni dei suoi figli portano nomi italiani: prima Kenga lavorava con gli inglesi, ma loro sono stati “cattivi” perché non gli insegnavano niente, così ha cominciato a lavorare con gli italiani che sono stati molto disponibili nell’insegnargli a cucinare; in onore di ciò sua figlia si chiama Marianna. Il suo migliore amico è romano e si chiama Antonio, quando veniva in Kenya da turista era sempre pronto a dare aiuti a livello economico alla famiglia Kutsao Tua.

Kenga vede Dama per la prima volta durante un periodo lavorativo a Malindi, dove affitta una casa per essere più vicino al lavoro. Dama frequenta la scuola proprio lì vicino e lui incomincia a notarla; nell’aprile 1992 si fidanzano, per poi sposarsi nel novembre dello stesso anno. È da notare che tutte queste informazioni me le fornisce direttamente Dama perché Kenga dice che non ha l’idea del tempo, i giorni li vive e basta. Lui parla bene l’italiano, mentre Dama non sa dire una parola e lui è costretto a fare da tramite.

Kenga dice che si sposano perché a tutti e due manca la mamma, e quindi lui diventa un amico per Dama e Dama diventa un po’ una mammina per Kenga: è splendido notare la semplicità o “psicologia ingenua” con cui interpreta le azioni!

Kenga rimane senza mamma piccolissimo, lei lo allattava ancora, e viene cresciuto dalla nonna materna. Dama ha i genitori separati, sua madre cambia città e lei la rivede solo dopo la nascita del terzo figlio Antonio.

Kenga per potersi sposare deve pagare il suocero 25.000 scellini, lei non è da ciò vincolata, può scegliere, può dire a suo padre che non ama il ragazzo e non sposarsi.

Nel villaggio Giriama hanno il seno di fuori, per coprirsi sotto usano il pareo in cui mettono nella zona glutei un asciugamano arrotolato per ingrandire appunto questo punto.

TRIBÙ LUYHAA

Milla, 20 luglio 2004

Quali sono i doveri impliciti dei figli? Cosa non si può dire in famiglia? Ci sono regole?

Quando una conosce un ragazzo non può farlo conoscere ai suoi genitori, deve fare tutto di nascosto; solo quando si è vicini al matrimonio allora i genitori di lui devono andare a casa di lei a dire “voglio sposare vostra figlia”.

In famiglia non si possono mai dire parolacce, neanche per scherzare, è una vergogna, se le dici prendi le botte.

Quando cominci a lavorare devi dare soldi ai tuoi perché come loro ti hanno mantenuto, tu devi garantire a loro il mantenimento.

Chi è tra la moglie e il marito che lavora?

Se lei ha studiato allora può andare a lavorare, se lei non ha studiato il suo compito è quello di fare figli, curare la casa e lavorare nei campi, soprattutto nelle famiglie più povere le mogli lavorano i campi e si arrangiano con molto poco.

IL TRADIMENTO

Gli africani possono sposare quante donne vogliono, i musulmani massimo quattro, gli altri quante ne vogliono – a parte che loro si considerano sposati anche solo andando a letto assieme, non c’è per forza bisogno del matrimonio formale, anche perché quello si fa in chiesa o in comune, non tutti se lo possono permettere – poi le deve mantenere tutte ma alcuni se ne vanno e le lasciano lì, così loro sono costrette ad andare a zappare per gli altri.

Quindi non esiste la gelosia?

Abbiamo la gelosia, ma ormai è diventata un’abitudine il fatto che un uomo debba sposare più donne, allora diventa normale, e se lei non è d’accordo allora se ne può andare.

La donna può andare con chi vuole?

La donna no, se lo fa prende un sacco di botte o addirittura viene ammazzata, gli uomini sono molto gelosi.

Cosa deve garantire l’uomo?

Da mangiare per sua moglie e per i suoi figli.

Storia dello zio di Milla

C’è questo zio che lavora e fa la guardia, guadagna 1500 scellini al mese (neanche 20 euro), ha tre figli e sua moglie non lavora, sta a casa a zappare, coltiva la verdura perché loro vivono con verdura e mais col quale fanno farina, polenta, patate dolci e kassava, cioè la manioca.

Lei era rimasta incinta però il bambino era messo male, aveva il tubo fuori dall’utero, quindi ha dovuto fare un’operazione da 28.000 scellini, l’hanno tenuta all’ospedale fino a quando non hanno avuto la garanzia di essere pagati, fatto che è avvenuto perché lui ha un piccolo pezzo di terreno.

 A fare questa vita in realtà siete felici o non lo siete perché vedete noi turisti che stiamo bene?

Non siamo felici perché guadagniamo molto poco.

AIDS

Qui c’è moltissima diffusione dell’AIDS. Per esempio, il padre di D. sta morendo, è molto diffusa perché le precauzioni non si prendono, perché? Semplice: fare sesso senza è molto più bello; inoltre la loro filosofia è: se la donna è stata fatta così e l’uomo così allora ci si accoppia come natura vuole, il condom non lo sanno usare. Inoltre in una famiglia numerosa se il marito muore di AIDS la moglie viene ereditata dal fratello maggiore, che di conseguenza verrà infettato.

Altre malattie sono la sifilide, che però può essere curata, e la malaria trasmessa da zanzare infette: i sintomi si presentano 14 giorni dopo averla contratta, il malato comincia a presentare tremori, febbre, nausea, inappetenza, stanchezza e male alle ossa; ma anche per la malaria esiste la cura.

21 luglio 2004

Ci sono molte tribù SWAHILI, società venutasi a definire nei suoi tratti fondamentali già nell’anno 1000 all’interno della rete commerciale dell’oceano indiano. Ha sempre mantenuto una propria identità culturale rispetto alle altre società africane – ad esempio i Giriama – e ai colonizzatori europei.

Il fascino della società Swahili è dovuto alla sua complessità culturale, infatti è un mescolarsi di cultura propriamente africana ed influenze straniere, soprattutto arabe, ma anche indiane.

La lingua Swahili è una delle dodici lingue più parlate al mondo, e dopo l’arabo, può essere considerata la seconda lingua più diffusa in tutta l’Africa Subsahariana, è la lingua ufficiale del Kenya, della Tanzania e dell’Uganda. Oltretutto il Kiswahili è stato un vettore molto importante per l’ampia diffusione dell’Islam, religione che i Swahili hanno ereditato dagli immigrati arabi e che ha determinato profondamente i tratti della loro cultura e della loro società.

LA RELIGIONE: l’Islam in Africa orientale e credenze indigene

L’Islam est-africano è un intreccio di cultura arabo –musulmana e religioni e credenze di origine africana.

Vicino all’Islam tradizionale, detto “dini”, esiste un altro complesso corpo di riti e credenze chiamato “mila”. Con base culturale per di più africana include la magia e la credenza negli spiriti. Gli spiriti possono essere buoni o cattivi, possono possedere il corpo di un essere umano attraverso la magia nera, o per invocazione, o perché la persona posseduta ha fatto qualcosa di male. Esiste la magia bianca per il bene e quella nera per il male.

 ISOLA DELL’AMORE

Quest’oggi, parlando con una donna Swahili, presso l’isola di Watamu, è nato un discorso molto interessante: questa giovane donna ha solo trent’anni e la trovo sulla “barca” a vela che da Watamu porta all’Isola dell’Amore (chiamata in tal modo perché quando c’è l’alta marea non è altro che una grande roccia in mezzo al mare, mentre con la bassa tutt’attorno si forma una meravigliosa spiaggia; essendo difficilmente raggiungibile e comunque deserta, molte persone vi permanevano completamente nudi e amoreggianti). La sua missione è quella di vendere oggetti locali, come parei o collanine. Parlando mi dice che ha 5 figli, il primo dei quali lo ha avuto all’età di sedici anni e l’ultima all’età di ventisei… Io le chiedo se ha intenzione di averne altri, e lei ridendo risponde: “Oh, no, non posso più”. Mi faccio spiegare meglio quest’affermazione, e vengo a scoprire che avendo già avuto molti figli si è recata all’ospedale a farsi “cucire la gnocca” – parole sue, in un italiano ben chiaro – può soltanto urinare! Esterrefatta, le domando come farà a fare sesso nei prossimi anni e mi risponde in modo molto più che naturale che lo ha già fatto troppo, è stufa, e quindi non le serve più!

23 luglio 2004

MALINDI

A Malindi più che in Italia giri tranquillo in bicicletta, me ne vado per le vie popolate da migliaia di persone con la pelle nera, persone col sorriso, che ti salutano sempre, persone che con l’uomo bianco approfittano della più banale chiacchierata per guadagnarci qualcosa. A Malindi tutti lavorano, la maggior parte della gente il lavoro se lo inventa giorno per giorno, sfruttando le opportunità del momento: uno sa che fa il pescatore, allora esce e va a pescare, poi in modo molto spartano te lo vedi arrivare con uno, due pesci giganteschi che pendono da un amo e che cerca di vendere al primo turista che incontra. Qui il prezzo del pesce, ma anche della carne, è ridicolo, al chilo un branzino costa 1 euro e 20, mentre un etto di filetto lo si paga 1 euro e 50 o 2 euro!

Malindi non è come Lamu o Zanzibar: le sue strade sono relativamente larghe e dritte e ci sono pochi edifici risalenti a più di un secolo fa.

Importante meta di gite scolastiche provenienti addirittura da Nairobi – 600 chilometri di distanza – è il pilastro fatto erigere da Vasco da Gama come riferimento per i naviganti. La croce che sormonta il pilastro è in pietra di Lisbona (quindi originale portoghese), ma il pilastro è di corallo locale.

24 luglio 2004

MILLA

TRIBU’ LUYHAA

Da dove vieni?

Ovest del Kenya, provincia dell’ovest.

Da noi non puoi salutare tuo genero con la mano, invece i Guirama sì.

Le case sono fatte di legno e materiali recenti, chi ha più disponibilità economiche usa anche il cemento. Coloro che hanno finanze sono anche persone colte, che hanno studiato e possono essere medici, avvocati, ingegneri, eccetera.

Costa tanto andare a studiare?

Sì, costa tanto, per fare le scuole medie e se vuoi diplomarti devi pagare, quindi già di famiglia devi essere un po’ ricco. La scuola dura tre mesi, per poi chiudere un mese e riprendere per tre, quindi la scuola chiude tre volte l’anno.

Esempio: un medico, finendo l’università, come si rapporta col lavoro?

In questo caso vi è molta somiglianza con l’Italia, infatti non è detto che subito trovi lavoro, anche qui esistono gli annunci sul giornale, come esiste la possibilità di non trovare il lavoro per cui si ha studiato.

ORGANIZZAZIONE OSPEDALIERA

Esistono sia strutture  pubbliche che strutture private, anche quelle pubbliche sono a pagamento. Per poter essere ricoverato devi pagare, se invece sei molto grave allora ti curano, ma o c’è qualcuno che firma e paga per te o se no non ti fanno uscire, resti in ospedale e ti fanno fare dei lavori come, per esempio, tagliare l’erba o raccogliere le sporcizie. Più rimani, più sale il prezzo che devi pagare, a mano a mano ti tolgono anche il letto e ti fanno dormire senza materasso, nel corridoio, per mangiare ti devi accontentare degli avanzi dei malati, intanto il prezzo sale; addirittura, ci sono donne che in queste condizioni fanno figli, praticamente crescono lì e li si vede scorrazzare nell’ospedale. Bisogna sperare che magari qualcuno della famiglia vada a vendere delle mucche o qualcosa per poterli fare uscire.

E qui finisce la mia ricerca, capisci che farci una tesi sarebbe stato improbabile.

Fatto sta che ogni volta che ero in quella terra avrei voluto rimanere là per sempre ma, allo stesso modo, ogni volta che ci andavo qualche strano segnale sulla via del mio destino mi riportava a casa; questo fatto per me era un vero dilemma, non potevo andare in Africa ed ogni volta rischiare di mettere a repentaglio la mia vita e poi, invece, sentire di dover tornare.

Essendo particolarmente diversa dalla nostra, la realtà Africana colpisce molto, i bambini fanno sempre un certo effetto a noi turisti, così tanto che all’ottanta per cento delle persone viene in mente di “dover fare qualcosa per loro” ed io ero una di quelle… non convinta ma lo ero.

Oggi sono solo convinta che l’Africa possieda un pezzo della mia Anima.

Così mi ripromisi che non avrei mai più messo piede in Africa fino a quando non fosse arrivato “il momento giusto” ma cosa significasse “il momento giusto” e, come avrei potuto riconoscerlo, questo proprio non mi era dato sapere. Ero però convinta che lo avrei sentito e che tutto sarebbe venuto da sé.

Così sono passati sette anni con il cuore ricolmo di nostalgia, mi mancava quella terra, spesso inspiegabili lacrime attraversavano il mio viso nel ricordo di quei tramonti ma il momento per tornarci sembrava non arrivare mai.

Così, dopo sette anni che non mettevo piede in Africa eccomi tornata oggi (allora era il 2012) dal Senegal. Ero partita con l’idea che questo viaggio mi avrebbe

 indirizzata verso quel “qualcosa” che dovevo fare in Africa ed invece mi ha portato completamente fuori da quell’idea che in realtà non mi aveva mai troppo convinta; l’unica diversità è che oggi posso dire come mai non mi aveva mai troppo convinta l’idea di fare qualcosa per quei bambini.

Questo viaggio mi ha vista immersa in mille imprevisti che come segni hanno disegnato la mia strada.

Avevo deciso di partire con un’Associazione di aiuto ai bambini, ma dentro di me sapevo che non ero e non sono fatta per le attività di volontariato, per un lavoro di squadra con sconosciuti, per un qualcosa che è decisamente più grande di me e per il quale non ho nessuna certezza. Ed ecco che infatti, a pochi giorni dalla partenza, per motivi interni all’Associazione e come detto da loro: “dopo anni di attività, per la prima volta la partenza viene annullata”; compro comunque un biglietto d’aereo per Dakar e decido di andarci da sola. Gli imprevisti si susseguono come una palla di merda portata da uno stercorario: sull’aereo trovo una persona importante per me che, nonostante l’importanza, avevo deciso di allontanare dalla mia vita ma che, dato questo ‘segnale’, decido essere, per l’ennesima volta, mio compagno di viaggio. Lui, da tempo mio compagno di avventura e sventura, uno di quelli con i quali fai tutto e tutto distruggi o si distrugge.

Il Senegal, Dakar e tutti i posti di cui non mi ricordo il nome sono stati una scoperta pazzesca, c’è da dire che ho sempre viaggiato senza soldi, senza meta, senza un itinerario e senza nessun tipo di informazione rispetto al paese, come diceva la mia mamma: “alla spera in Dio”, ecco sì, esattamente così, e Dio, devo dire, mi ha sempre largamente assistita e protetta. A Dakar ho alloggiato in un piccolo e sgangherato hotel dove ho conosciuto Mohamed, alla reception, l’unico essere umano presente nell’hotel, l’acqua non funzionava, c’era una bestia vicino al letto eccetera eccetera ma, la dolcezza di Mohamed, è ancora oggi il motivo di tutto questo scrivere. A Dakar ci sono tanti ammalati, uomini, donne, bambini senza gambe, senza braccia, in strada, nelle case, ovunque, a qualsiasi ora, si respira un gioioso degrado, un solenne rispetto verso la malattia come parte della vita.

 Quando prendi un taxi e vuoi spostarti in un qualche posto che vedi su una qualsiasi cartina geografica del paese, tendenzialmente, il taxista ti ci porta ma non conosce mai la strada, per cui quello che dovrebbe essere un viaggio di un’oretta diventa un’avventura di 6-7 ore, rese ancora più difficili dalle strade che non sono asfaltate e che, a volte, non portano da nessuna parte, se va bene qualche pezzo di macchina si rompe, si usura o si perde ma poi, dopo vari aggiustamenti fatti dal conducente e da qualche passante, il mezzo riparte, facendo dei rumori non troppo rassicuranti, la sorprendente meraviglia è che prima o poi arrivi, se hai fede, arrivi a destinazione. Sono stata ovunque in Senegal, ma non mi chiedere i nomi dei posti perché se non li scrivo sulle fotografie non me li ricordo mai. Andavo in giro a volte con il mio compagno e a volte senza: lui è uno spirito libero, ribelle, combattivo, per cui, capitava che alle volte decidesse di fare senza di me, lasciandomi da sola di punto in bianco in qualsivoglia luogo e dicendomi di arrangiarmi, (cosa che tra l’altro mi riesce benissimo) ed allora ognuno per la propria via, fino a quando, la sera non lo vedevo tornare. Ad un certo punto lui mi dice che ci separiamo per davvero perché ha trovato un passaggio per il Gambia – considera che per entrare ci vuole il visto- ma lui farà una traversata clandestina con una specie di canoa guidata da due uomini del posto, giuro che quando ho visto l’imbarcazione e loro tre sopra pensavo che sarebbero morti; è successo molto meno, il mio compagno è stato bloccato ed arrestato in Gambia. Io ho proseguito il mio viaggio di scoperta, trovandomi a volte ad avere paura nelle notti solitarie così come a sentirmi parte integrante di un luogo con persone sconosciute, totalmente lontane da me.

Sono le ore 23.30 il mio volo partirà alle 2 circa ed io sono qui all’aeroporto di Dakar, ti garantisco che non è proprio un ambiente rassicurante per una donna sola, o forse semplicemente non ne sono abituata, nonostante questo, la mia mente dice “NO, NON ANDARTENE” ed io non riesco a partire, il mio cuore palpita: siamo alle solite non ce la faccio proprio ad andarmene dall’Africa. Prendo coraggio ed alle 24.30 disdico il biglietto della mia partenza e mi dirigo all’uscita, cammino al buio, il buio quello vero, pesante, scuro, mentre cammino ogni tanto sento dei colpi nel petto, ora lo penso sorridendo ma nel buio, i neri, sono ancora più neri e mentre cammini ti trovi ad avere davanti a te degli occhi bianchi che incroci nella notte, come fari abbaglianti nell’anima. Niente, decido di tornare in aeroporto, meglio avere un piano dato che mi si prospetta una lunga e faticosa notte seduta su una sedia a dormire, ormai sono qui e non me la sento proprio di prendere un taxi a quest’ora di notte, domani ci penserò: si dice che la notte porti consiglio. Ma che mi è saltato in mente? Ed ora che faccio? Il francese non lo parlo e qui nessuno mi capisce! Una voce dentro di me suggerisce: “vai agli arrivi, un italiano lo troverai, sarà la persona giusta per te!” Mi dirigo agli arrivi e conosco una persona che per privacy chiamerò Carlo, un incontro magico. Dall’aeroporto con Carlo raggiungo Toubab Dialaw, Carlo in questo luogo è presidente di un’Associazione che garantisce scolarizzazione ed attività a bambini che non poterebbero altrimenti averla.

All’Associazione si svolgono diverse attività in favore dei bambini come cure infermieristiche, progetti di scolarizzazione e di gioco, i bambini sono accolti in modo amorevole dai volontari. Non partecipo ai progetti con i volontari perché credo di non averne la stoffa.

Camminando sulla spiaggia appena fuori dal “territorio” dell’Associazione si torna ad una realtà più Africana anche se, in questa fascia di terra Toubab (uomo bianco) è tutto in ordine e pulito rispetto al Senegal povero e sporco che ho visto fino ad ora. Su questa lunga lingua di spiaggia è impossibile camminare tranquilli, si viene fermati per avere denaro, continuamente seguita, tampinata per chissà quale motivo, a volte vengo addirittura schernita. Il mio compagno di viaggio liberato, che mi ha raggiunta dal Gambia, mi fa notare che forse la presenza dei Toubab è la causa di questa diversità, di questa silente voglia di possesso, di questo sottile odio che si percepisce nel momento in cui non soddisfa un desiderio di bisogno degli occhiali da sole che hai in testa o della macchina fotografica …

Come mai tutto questo? Come mai dove non è presente l’uomo bianco con le sue soluzioni questo non accade?

Come mai si disinfetta un ginocchio ad un bambino Africano che sa resistere a cibarsi di pesce appena pescato vicino alle carogne, con anticorpi che nemmeno immaginiamo? Ed ammesso che questo sia utile, come si procurerà alcool e bambagia una volta imparato come usarla? Arriveremo ancora noi, immagino… E ancora, perché costruire un pozzo nel centro del villaggio quando le donne sono abituate a fare 20 km al giorno per procurarsela? Come passeranno il loro tempo? Forse impareranno a coltivare, organizzarsi, recuperare provviste, comprare una macchina per andare a lavorare e… avere problemi di sovrappeso, oppure di stress! Perché pensare di poter portare soluzioni ad un popolo che nemmeno le ha richieste se nessuno glielo avesse messo in testa, oppure portare soluzioni ad un popolo che più di ogni altro sa vivere in condizioni naturali procacciandosi cibo e sorridendo sempre? Ho visto volontari fare tanto, tanto e con amore, ma serve davvero o stanno aiutando solo se stessi? Vorrei apprendere da loro la volontà di fare ogni giorno tanti chilometri per recuperare dell’acqua, avere il coraggio di convivere con insetti e carogne, avere un contatto vero con la vita e con la morte. Esplorare questo popolo sorridente nonostante la malattia, solidale nonostante la povertà, conoscere e imparare da quella gente ospitale nonostante secoli di soprusi.

Ho visto grandi associazioni di aiuto umanitario possedere palazzi sfarzosi in centro città ed ospedali Senegalesi grandi poco meno di un nostro soggiorno, ospedali con un solo lettino vecchio e rotto, un piccolo quaderno con una penna tenuta come se fosse una Montblanc, dove il medico annota nascite e morti con la scrittura tipica delle nostre bisnonne, quella arzigogolata ed elegante, precisa, perfetta, il dottorino che mi mostra il suo sfigmomanometro, quello per misurare la pressione per intenderci, come l’oggetto più prezioso che possiede, ed è proprio così, è lo strumento medico più prezioso che possiede, quello che gli è stato fornito da qualche volontario di quei grossi colossi per gli aiuti umanitari. Io ho pianto, io mi sono arrabbiata, io quando ci penso ho tutt’ora la pelle d’oca e le lacrime agli occhi. No, io non voglio aiutare l’Africa, io vorrei solo far parte di quel meraviglioso disegno che intravedo negli occhi di quelle persone, di quella terra, dei suoi animali.

Non voglio essere complice di mandare sacchetti di medicinali e vestiti per poi vedere che quei sacchetti di plastica non possono essere smaltiti e diverranno nient’altro che distese brucianti ed inquinanti lunghe di chilometri e chilometri o vedere sotto al sole cocente giacche a vento, scarponi da sci, così, in un mercato che copre una vecchia ferrovia in disuso, per essere venduti al “Signor Mai lo comprerò”.

Così ho pensato (e forse neanche l’ho pensato, è semplicemente capitato di avere l’opportunità di pensare), che sarebbe stato più opportuno prendermi carico di qualcosa che fosse per prima cosa richiestami ed in seconda battuta pressoché fattibile. Ho conosciuto Mohamed, ti ricordi? Il receptionist dell’hotel, ad oggi non mi ricordo come ma, io e lui, non abbiamo mai perso i contatti. Dieci anni fa ormai, mi chiese, di poter far venire sua figlia Wolimata di 6 anni a studiare in Italia. Mohamed ha 36 anni circa, è musulmano, non sposato perché dice che sposarsi costa troppo, come marito dovrebbe regalare gingilli e corredi alla futura moglie. La madre di sua figlia dice che era matta e lui l’ha cacciata di casa, la bimba vive con la zia fuori Dakar. Ho parlato con 3 uomini diversi e tutti avevano figli con mogli matte o violente che hanno cacciato di casa, sarà il caso o sarà che devono avere un qualche motivo utile per raccontare questa versione. Comunque siano le cose, ho raccontato ciò che mi è successo e la mia volontà oggi è poter mantenere la mia promessa, l’unica che ho fatto e l’unica per me possibile: mi impegnerò per realizzare la volontà di Mohamed. Certo sono passati 10 anni, insieme a Mohamed abbiamo cercato di far venire la figlia in Italia senza alcun risultato e ad oggi mi ha semplicemente chiesto di poter mandare abiti e materiale scolastico per i figli, ecco perché nasce questo PROGETTO AFRICA, per raccogliere materiale e denaro solo per la spedizione, sì perché Mohamed non vuole soldi.

E come disse Evans-Pritchard:

“è importante registrare il come i nativi vivono le cose per poi scoprire i tratti costanti delle ragioni da essi adottate per spiegare gli eventi nei quali sono coinvolti”.

C. G.